Stato-Mafia : la trattativa non esiste – Assolti Mori, Subranni e De Donno
PALERMO – Ieri è stato posizionato un importante tassello in una vicenda che, sebbene (certamente) non conclusa, ha per anni coinvolto la nostra società, la nostra coscienza, il nostro essere servitori della patria. Oggi, la Corte d’Assise d’Appello palermitana ha statuito che tre ufficiali dei Carabinieri, tre servitori dello Stato, tre Uomini che credevano nel loro ruolo e nel loro compito, non hanno commesso un reato che macchiava la loro vita, non hanno tradito lo Stato con l’immonda piovra che è definita “mafia”.
Giovanni Falcone sosteneva che “possiamo sempre fare qualcosa” e che questa massima “andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto” e aveva ragione. Ma cosa possiamo fare per combattere un cancro che si annida, subdolo e spietato, all’interno di organi e apparati sani, infettandoli, ammorbandoli con la sua semplice presenza?!
Tre ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, tre Uomini che hanno fatto della loro vita una perenne battaglia contro il male, sono tre poliziotti, che hanno ritenuto di potere, di dovere, fare qualcosa.
Noi, come appartenenti alle forze dell’ordine siamo obbligati a chiederci dove ci dovrebbe (potrebbe) portare il desiderio di giustizia, siamo tenuti, machiavellicamente, a chiederci se il fine giustifichi o meno i mezzi e siamo sempre portati a rispondere a noi stessi in maniera discordante. In fondo il lavoro della giustizia dovrebbe essere quello di valutare i mezzi, perché è proprio con i mezzi che spesso si commettono crimini (efferati o meno) tanto che nello studio di molti reati sappiamo bene che proprio il fine ultimo, spesso, rileva come possibile circostanza aggravante della condotta (a volte dello stesso titolo di reato) ma non come valutazione sulla sussistenza o meno di una violazione. Questo ragionamento dovrebbe però portarci a riflettere sul significato del servire la collettività, sulla necessità di scendere a patti con sé stessi in nome di un (non sempre valutabile) bene supremo, in nome di un fine la cui importanza è così pregnante da portare in secondo piano gli stessi mezzi. Certo, dobbiamo anche chiederci chi o cosa dovrebbe decidere, valutare, stabilire quando il fine è così pregnante, necessario, da giustificare i mezzi?! Non noi, non la collettività, che non può essere chiamata a stabilire in quali casi sia lecito rinunciare a libertà fondamentali o accettare un patteggiamento morale di chi è chiamato a proteggerla, e allora chi, cosa? Il legislatore?! Ma l’ha già fatto! Le stesse norme che prevedono le privazioni delle libertà personali, le perquisizioni, i sequestri (solo per citarne alcuni), sono di per sé dei patteggiamenti morali, dei percorsi mentali a seguito dei quali è stato valutato remunerativo, necessario, essenziale, rinunciare a libertà fondamentali in nome di un fine superiore. Quindi, possiamo noi valutare autonomamente di deviare da un percorso di rettitudine morale che il nostro ruolo, il nostro lavoro ed i valori ad esso connessi, ci imporrebbero?!
A pensarci bene una risposta affermativa a tale quesito è proprio ciò che fa ogni appartenente alle forze dell’ordine, allorquando compie le normali azioni quotidiane che, in altri contesti, in altri frangenti, sarebbero palesi violazioni; la sua implicita ed intima giustificazione, l’implicita e intima giustificazione della sua condotta e delle norme applicate, gliela fornisce il fine.
Indro Montanelli sosteneva che la società affida alle forze dell’ordine il compito di frugare nelle fogne ma non vuole che si sporchino le mani, o per meglio dire non ammette che la sporcizia si veda. Una simile affermazione, spaventosa nell’esaminare il disagio che spesso chi fa il nostro mestiere si trova ad affrontare, è altrettanto spaventosa nelle implicazioni del ragionamento stesso: basta che la sporcizia non si veda, la si potrebbe pure comprendere… a pensarci molti processi che hanno visto coinvolti vertici ed appartenenti alle forze dell’ordine si sono basati sulla giustificazione mentale, sul patteggiamento morale insito in una simile affermazione. Ci sono molti modi, ci diciamo, di sporcarsi le mani e non è detto che tutti debbano consistere in una o più violazioni penali. Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno non hanno inteso scendere a patti con un cancro da loro stesso avversato, men che mai hanno ottenuto vantaggi personali dalle loro “mani” ma, se tale fosse stato scientemente il loro comportamento, e la verità processuale finalmente ci dice di no, potrebbe esserlo stato solo in nome di una reale (anche se apparentemente machiavellica) necessità di perseguire un fine ritenuto da loro, da noi, dalla giustizia e dalla necessità di essa, superiore e meritevole, con tutte le sofferenze che ciò comporta, di un loro patteggiamento morale.
Quindi non di assoluzione si dovrebbe discutere in questa sede ma di oggettiva necessità di effettuare una valutazione franca e aperta, libera dalla necessità giornaliera di essere “politicamente corretti” e dalla necessità di doversi sentire a tutti i costi e solo esternamente “puliti”.
E’ vero, il nostro lavoro ci porta spesso a sporcarci le mani, e ci viene chiesto che le nostre mani sporche non debbano mai essere visibili ma, quando ciò accade, quando le nostre mani logore degli anni di ingiustizie e sporcizia all’interno delle quali si sono dovute immergere, per qualche spiacevole coincidenza, emergono apparentemente macchiate non ci viene chiesto se lo sono sul serio. Il garantismo, in questi casi, non vale più e ci viene chiesto di dare conto del perché le nostre affaticate mani non paiano essere limpide come dovrebbero.
Ora ci viene detto che quanto posto in essere dai tre Uomini non costituisce reato. Ci viene detto, anche se in secondo grado, che il fine è elemento essenziale e che i mezzi, anche se estemporaneamente giudicati “border line”, hanno una valenza relativa.
Questo è ciò che è successo ma questo è anche ciò che ha macchiato la carriera e la vita di tre Uomini che nello Stato e per lo Stato avevano riversato tutte le loro risorse, tutti i loro sforzi.
Onori, quindi, a chi ha vissuto, lavorato, combattuto, per perseguire un ideale e in silenzio ha aspettato una conclusione che, finalmente, parrebbe essere giunta.
Aspettiamo ora di leggere le motivazioni di una sentenza che restituisce dignità e valore ai gesti di una vita.
SIM CARABINIERI